SUZUKI DX 250 ALEX PUZAR.LA REGINA DEL MONDIALE 1990 - Motocross.it

2023-01-05 16:51:43 By : Ms. Alice gong

SUZUKI RH 250 ALEX PUZAR. LA REGINA DEL MONDIALE 1990

È la moto che Alex portò alla vittoria del titolo iridato nel Mondiale di Motocross classe 250. La sua “bimba”, come la chiama lui. Esemplare unico al mondo d’impareggiabile bellezza.

“Passo nel weekend da mio padre a prenderla e te la porto a Montecarlo”. Alex è di parola!

Appuntamento di fronte allo Stade Louis II, dove gioca il Monacò (con l’accento francese). È una bella mattina di sole, gente a spasso tra i giardini in fiore, dal mare tira l’aria frizzante di primavera. Alex è puntuale, arriva col suo van targato Principato. “Seguitemi. Sta qui dietro”. Giriamo attorno al perimetro dello stadio e dopo poche centinaia di metri la sbarra d’ingresso del Port de Cap d’Ail si alza invitandoci a entrare. È quasi stagione per le uscite in barca, la marina è già piena di yacht, panfili e imbarcazioni di ogni taglia, fattura e conto in banca. Lungo il molo esposto a sud, Alex condivide con Lucio Cecchinello quella che loro chiamano “l’officina”.

Da fuori, i due ampi portali in legno a tre battenti farebbero immaginare uno spazioso ricovero barche, in realtà quando si spalancano rimani a bocca aperta per quanto sia minuscolo. “Questo è il nostro piccolo Paradiso, io e Lucio veniamo qui spesso, abbiamo tutto ciò che ci serve. Da qui passano un po’ tutti i mozzi del porto a farsi prestare gli attrezzi, non ci manca nulla: compressore, tornio, mole, frese, pompe di sentina, saldatrice, aspirapolvere, banco di lavoro fornitissimo”.

Gli attrezzi appesi alle rastrelliere non si contano, sembra di entrare in un box della MotoGP. Solo che qui lo spazio è ridotto massimo a 12 mq. In stile giapponese. Da non credere! Tutto è rigorosamente ordinato, catalogato, disposto con logica. E pulito. Si denota il rigore di un team manager come Cecchinello, abituato a gestire settanta teste e tutto l’occorrente a ogni Gran Premio di Motomondiale. Ci sono pure fornelletti da cucina, barbecue, tute in pelle, stivali da cross, caschi, biciclette da corsa, un angolo di relax con tavolino, sedie, bottiglie di vino, flute e coppe di champagne. Un lavandino e pure il vasino da notte di Cecchinello di quando era bambino. Si sa mai!

“Eh, che te ne pare? Bello, vero?” e dal suo telefonino Alex fa partire un video girato alle due e mezza di notte da Cecchinello in cui mostra tutti i lavoretti fatti in officina prima di andare a dormire: “… ho sistemato questo, ho aggiustato quello, ho cambiato disposizione di quest’altro…”. Eccetera eccetera.

Alex se la ride: “… ma quanto è fuori Lucio? Un grande, lo adoro…” e giù di nuovo a ghignare.

Incantato da questo lillipuziano angolo di mondo, con la coda dell’occhio scorgo Alex avviarsi verso il furgone. So bene cosa nasconde quel Mercedes. Apre il portellone e finalmente la vedo. Bella come non mai, statuaria, con quel telaio amaranto che si stacca così netto dal bianco latte delle sovrastrutture in omaggio allo sponsor Chesterfield. Sgancia le due cinghie, la fa indietreggiare e mi chiede se gli passo il cavalletto. In realtà, più che un cavalletto è un’opera d’arte: tubi in titanio saldati a TIG con base d’appoggio e fiancatine laterali in carbonio. “Per la mia bimba solo il meglio”. Un esemplare del genere merita infatti il massimo delle attenzioni. “Guarda che spettacolo. Ma quanto è bella ‘sta moto?” esclama Alex nell’ammirare orgoglioso la sua “creatura”.

“Questa è l’unica Suzuki di quell’anno rimasta in vita – sottolinea – nemmeno Rinaldi ne ha una. La sua gliel’hanno ragnata in Giappone. È ufficiale a 100%, la moto con cui disputai l’ultimo Gran Premio in Germania del Mondiale ’90”. Alex vinse entrambe le manche.

Accarezza la sella Tecnosel zigrinata a movimento ondulato, molto ribassata nella zona a contatto col serbatoio rispetto alla moto di serie del tempo. Già allora si cercava il giusto grip col fondoschiena. Per quanto la guida di Puzar era sempre piuttosto caricata sull’anteriore, testa bassa e gomiti larghi, la sua statura da fantino non gli consentiva di staccarsi troppo dalla sella anche mettendosi sulle pedane. Non è un segreto che per partire bene Alex usasse mettere sotto il piede destro un blocchetto di legno.

Dalla sella, le mani passano a sfiorare il serbatoio. Con la nocca del dito indice bussa sulla lamiera: “Ascolta il rumore. Senti com’è sottile? È tutto realizzato in alluminio con una lamiera finissima, quasi un velo. Talmente sottile che si abbozzava solo a guardarla. Non so quanti ne cambiammo in una stagione. Pazzesco quanto sia leggero”. Me lo smonta e me lo porge in mano per soppesarlo. Rimango un’altra volta a bocca aperta. Così, ad occhio e croce, potrebbe pesare ancor meno della sella, già di per sé una piuma. Il risparmio con quello originale era di 600 grammi ma con una capienza maggiore: 9,5 lt contro gli 8,6 di serie.

“Onestamente non ho idea di quanto possa realmente pesare la moto – interviene di nuovo Alex – ma credimi, è davvero leggera”. Bulloneria rigorosamente in titanio, carter fusi in terra sono solo alcuni dei dettagli per abbattere il peso il più possibile. “Prima di venire qua ho sistemato il carterino della girante del circuito di raffreddamento. Purtroppo, non avevo spurgato bene l’impianto e l’acqua residua me l’ha bucato. Un po’ di pasta metallica e tutto sistemato. Non puoi certo dargli un punto di saldatura, andrebbe a pezzi talmente si è corroso col tempo”.

Le vecchie abitudini non muoiono mai, Alex stringe le manopole del manubrio, pinza il freno anteriore e prova a far scorrere le forcelle. “Senti com’è piantata”. In effetti facendola oscillare la Showa ufficiale da 45 con aste cromate non ne vuole sapere di abbassarsi. “La volevo dura come un palo. Guidavo così, molto caricato sull’avantreno. Avevo bisogno di sostegno”.

Per quanto in acciaio al cromo molibdeno, anche il telaio con montanti a sezione ellittica rinforzato nei punti di massimo stress sembra apparentemente leggero. “Onestamente non ricordo quanti ne provammo. Era fatto per me, sulle mie misure, moto molto slanciata, bassa, maneggevolissima, ci giocavo. L’estensione del mio corpo. Fu la miglior moto di tutta la mia carriera, eccezionale, molto avanti per l’epoca. Ancora oggi non sfigurerebbe al confronto con quelle attuali”.

Proviamo a scattare le prime foto sul pontile, ma la luce oggi è piuttosto abbagliante, non c’è contrasto con il bianco della Suzuki RH 250 Campione del Mondo nel ’90. Occorre un ambiente più scuro. Le luci da studio che ci siamo portati dietro faranno il resto.

Mi viene in mente il parcheggio coperto della marina dal quale siamo passati per arrivare all’officina. Giusto la luce fioca di qualche neon, ma nel complesso sembra il set ideale per esaltare le forme della Suzuki di Alex.

Di queste RH 90 (così era codificata ai tempi questa serie limitata di Suzuki ufficiali) ne furono realizzate tre per ciascun pilota del Team Rinaldi (John Van den Berk era il compagno di squadra di Alex), due da gare più il classico muletto. Per l’intera stagione Mondiale si impiegarono solo pochi cilindri con architettura sei travasi, due separati dal traversino e valvola di scarico comandata meccanicamente. L’alesaggio era di 70,8 mm, il pistone monofascia, il carburatore Mikuni fuso in terra (non presente sulla moto) con valvola semi cilindrica e tubo Venturi a sezione circolare da 38 o 40 mm a seconda delle esigenze di erogazione. Fusi in terra anche i carter motore con immissione lamellare a quattro petali in materiale composito. L’espansione realizzata a mano con coni e controconi in acciaio rullati veniva praticamente cambiata ogni gara a causa delle deformazioni del collettore iniziale per via delle sassate. Ne furono utilizzate di due tipi, di cui uno che faceva guadagnare qualcosa in più in termini di allungo agli alti regimi di giri. Cambio 5 marce con ingranaggi irrobustiti e frizione praticamente derivata dalla RM standard.

Il circuito di raffreddamento anticipava di una stagione il sistema adottato sulle RM di serie del ’91, i tubi infatti uniscono i due radiatori sia alla base che alla sommità facendoli lavorare in parallelo. Ingegnoso il sistema di sgancio rapido delle protezioni radiatori tramite una molla di ritegno, senza quindi alcuna vite di fissaggio.

Sul fronte ciclistico, il forcellone DID in alluminio rastremato verso la ruota posteriore è al tempo stesso leggero e rigido quanto resistente, con attacco del perno ricavato dal pieno dello stesso materiale. Notare il passa catena in fibra di carbonio.

Già allora l’ammortizzatore Showa era avanti dal punto di vista tecnico, disponeva infatti di registro di compressione sia alle velocità medio-basse (vite centrale) che alte (esagono). È accoppiato al leveraggio progressivo Full Floater modificato alla ricerca di maggiore morbidezza a inizio corsa e più sostegno nel tratto finale di escursione (324 mm). Mozzi ruota fusi in magnesio per contenere il peso generale della moto di Alex, che alla bilancia fece segnare 98,5 kg, appena mezzo chilo sopra il limite minimo ammesso allora per regolamento. Utili ad abbassare i chili anche le piastre forcella e i piedini degli steli in lega ricavati da pezzo. Notate quanto siano arretrati i braccialetti del manubrio Arrow P90 a piega bassa, con le leve in posizione quasi orizzontale.

Sotto molti aspetti tecnici la moto di Alex del Mondiale ’90 ricalcava l’omologa in commercio, in particolare nella dotazione dell’impianto freni Nissin, con la particolarità del pistone di spinta della pompa anteriore più piccolo di diametro, utile a una maggiore modulabilità, unita alla massima coppia frenante con una pressione alla leva inferiore. Dalla serie derivava anche il pedale rettilineo del freno posteriore, in verità non fu preso dalla RM ma dalla versione enduro RMX, scelto onde evitare l’intrusione di terra e sassi tra il carter frizione.

L’opera d’arte che vinse il titolo Mondiale 250 nel 1990 venne completata con cerchi Takasago Excel anodizzati oro, dello stesso colore la corona Afam da 51 denti, scarico Arrow misto titanio e carbonio e pneumatici Michelin Starcross (post.) e Cross Competition (ant.). In verità le coperture più gettonate durante quella stagione furono le Pirelli MT 32 e 32A con relative mousse. In condizioni particolari, ma solo in pochi casi, si optò anche per gli MT 44 e 46, più alcuni pneumatici scolpiti a mano per le condizioni di fango.

“Stabilità eccezionale, ottima maneggevolezza, impianto freni incredibilmente efficace. Il motore è velocissimo, va guidato con decisione. È dolce in uscita di curva, ma appena entra in coppia diventa fortissimo. Con lo stesso rapporto puoi insistere oltre il regime di potenza massima. Una moto fatta a misura di Campione”. Così scriveva il direttore Edoardo Pacini nel test della Suzuki RH 250 di Alex Puzar. Straordinari protagonisti di quell’indimenticabile 1990.

Iller Aldini, meccanico della Suzuki di Puzar del Mondiale ’90

“Per me la più bella due tempi di sempre”. A sostenerlo è Iller Aldini, meglio conosciuto nel nostro ambiente semplicemente come Aldo. Tecnico di grande esperienza, Campione del Mondo prima con Michele Rinaldi nel Mondiale 125 dell’84, poi con Alex Puzar nel Mondiale 250 del ’90 in cui fece da meccanico alla sua Suzuki RH ufficiale. Uomo di infinite conoscenze, dotato di impareggiabile estro e di un invidiabile “orecchio” per la meccanica. Michele e Sandro sono solo due capitoli della sua carriera di tecnico, sfociata con un numero indecifrabile di allori iridati.

“Vabbè, io potrei essere di parte – continua Aldo – ma era una moto ufficiale vera, un vero prototipo, la numero uno su cui abbia mai lavorato, anche per come andava, per la superiorità che aveva rispetto alle altre. Poi, sai, la superiorità deriva anche dall’aver in sella il miglior pilota del momento. In quell’anno con Puzar non ce n’era per nessuno…”.

Come non ricordarlo? Il Puzar del ’90 surclassò talmente tanto la concorrenza da chiudere il Mondiale con 106 punti di vantaggio su Pekka Vehkonen. Un’eternità!

“Comunque, anche Van den Berk alla fine fece terzo. Anche se si lamentava un po’ della moto, un po’ troppo aggressiva, troppo potente… A dire il vero ci avevamo anche lavorato un po’ sopra per Puzar. Sandro ha sempre amato potenza e cavalli e, francamente, quella Suzuki un po’ cattivella lo era… ma non per lui!”.

Al tempo la filosofia dei giapponesi era un po’ quella di fare la moto prototipo con cui si correva il Mondiale e l’anno successivo andare in produzione. In pratica, la moto prototipo la si aveva ogni due anni. “Per questo motivo quella del ’90 aveva i carter fusi in terra e varie cosette che poi con la moto del ’91 si persero perché più vicina alla serie, venendo meno anche quel tono di vera ufficiale. Il motore aveva ad esempio i carter fusi in conchiglia.

La prima volta che la provammo era a Viareggio, un postaccio vicino a un cimitero. Van den Berk gli dava cinque/sei secondi… Sandro si fermò lungo la pista a piangere dalla rabbia! Ce l’aveva con me e Michele… ‘se facevo la 125 potevo vincere il Mondiale e invece qui le prendo…’ si sfogò con noi.

La sua Suzuki era una moto davvero buona, talmente a posto che non aveva difetti. Tuttavia, alla prima gara in Austria non riuscivamo a passare la fonometrica. Ricordo che bloccai la valvola di scarico, mi inventai di tutto, ma niente da fare. Lavorando il pomeriggio riuscimmo a punzonare una sola moto delle due dopo esserci presentati alla fonometrica almeno sei o sette volte… La gara poi andò bene, Sandro vinse tutte e due le manche, però rischiò di non correre.

Non ci spiegavamo il perché del problema, solo la settimana dopo a casa lo capimmo: il cavo della pipetta candela era talmente schermato che lo strumento utilizzato alle gare leggeva male il numero dei giri motore. Da lì in poi ne adottammo uno appositamente fatto per la prova fonometrica.

Lavorammo un po’ sulla taratura forcella, era la prima rovesciata, in quel periodo non tutti i piloti erano favorevoli, c’era chi preferiva le tradizionali, noi le avevamo tutte e due e continuavamo ad alternarle, finché arrivò il diktat da Suzuki: dovevamo usare la rovesciata! E ci concentrammo solo su quella. Si lavorò un po’, ma alla fine ottenemmo un risultato più che accettabile. Certo, avevamo un assetto un po’ particolare, pensa che ad Arco per la prova degli Assoluti, Poletti mi disse: ‘ma Sandro come fa a guidare una moto così? Ha troppo negativo e la forcella è troppo aperta!’ In effetti avevamo un negativo di 55-60 mm e un affondamento con pilota in sella di 135 mm, valori assurdi.

Ma solo in quel modo Sandro riusciva a guidarla. Se avessimo optato per un assetto più normale non sarebbe andato così forte, la moto era stabilissima. Certo, da fuori molti avevano da obiettare, non solo Poletti, ma anche lì Sandro vinse due manche. A fine gara rincontrai Poletti nel paddock e gli dissi: ‘visto? La moto funziona anche così’…”.

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